Nella mitologia greca Scilla e Cariddi erano due mostri marini che abitavano il pericoloso passaggio nello Stretto di Messina. Rappresentavano le forze distruttive del mare, fatte di scogli e di vortici, insidie per le imbarcazioni antiche. Scilla (colei che dilania) e Cariddi (colei che risucchia) erano gli appellativi della dea del Mare distruttrice (R. Graves, I miti greci, 1963).
Il mito di Scilla è molto antico e nonostante le sue numerose versioni, molto affini tra loro, la sua fama potrebbe essere diversa. Scilla strappa i marinai dalla nave di Odisseo, pesca con i suoi artigli e teste, ricordando più dei tentacoli che tutto afferrano, abita le grotte di cui è ricco il versante calabrese, può essere confrontabile con la rappresentazione del polipo, spesso fatta dai cretesi per indicare la dea del Mare. Sembrerebbe, perciò, un mito simile a quello di molte altre culture marinare, soprattutto legato al nordico kraken. Questo essere marino enorme traeva probabilmente origine dai resoconti degli avvistamenti di calamari giganti, già noti nel periodo delle saghe norrene. Gli abili marinai vichinghi ricordano proprio il bellicoso popolo Miceneo, in virtù della loro tendenza all’esplorazione e ai miti tramandati oralmente, nonché per le modalità di navigazione simili su imbarcazioni snelle e veloci. Può darsi ugualmente che marinai micenei o cretesi, spinti nei lontani commerci, conoscessero la varietà dei calamari giganti, oppure che avessero ascoltato storie sulla pericolosa abitudine di questi esseri a strappare gli uomini dalla coperta delle navi.

A metà dello scoglio vi è un antro nebbioso, [...] Vive là dentro Scilla, che latra in modo pauroso. La sua voce è quella di un cucciolo, ma essa è un orribile mostro. [...] Ha dodici piedi, ancora informi, sei colli lunghissimi e su ciascuno una testa orrenda, con tre file di denti, numerosi e fitti, pieni di morte nera. Per metà si cela dentro la cava spelonca, ma sporge le teste fuori dall'orrido antro. E pesca, spiando bramosa intorno allo scoglio, foche, delfini e mostri anche più grandi, di quelli che nutre a migliaia il mare sonoro. Di là nessun marinaio riesce a scampare, illeso, con la sua nave: ognuna delle sue teste essa afferra un uomo, strappandolo alla nave dalla prora azzurrina.

Odissea, XII, 80-100 (tr. di Maria Grazia Ciani)

L’altro mito è molto più legato ai fenomeni delle correnti, agli impetuosi gorghi, come il famoso maelström dei mari nordici. Cariddi vive vicino agli scogli più bassi, dove la Sicilia è più pianeggiante per l’appunto. Lì di fronte, c’è lo Stretto di Messina. Essendo questo il punto di separazione/congiunzione tra due mari con diversa salinità, densità e temperatura (lo Ionio e il Tirreno), si generano particolari fenomeni idrodinamici, correnti stazionarie e di marea. Quando il Mar Tirreno è in fase di bassa marea al confine settentrionale del canale, il Mar Ionio invece si trova in fase di alta marea e viceversa. Si crea quindi fra le due maree un dislivello fino a 27 cm, è come se a turno le acque dei bacini si riversassero l’uno nel recipiente dell’altro.
Attualmente Cariddi è il nome attribuito al vortice creato a largo di Capo Peloro, dalla corrente nello Stretto. Un tempo queste correnti potevano rappresentare un serio pericolo per le esili imbarcazioni, soprattutto quando, durante le frequenti burrasche, venivano sbattute, dalla forza dei vortici, contro gli scogli della Calabria.

La leggenda dei due mostri ebbe grande popolarità in tutto il mondo antico. Sarà ricordata grazie a Omero sia nell’Iliade che nell’Odissea, e successivamente da Virgilio nell’Eneide (III, 420-423) e nel mito degli Argonauti (Apollonio Rodio, IV, 828).
Oggi non ci rimangono che questi luoghi fatti di tradizioni marinare, forti suggestioni mitologiche e letterarie, di storia e di archeologia, raccontandoci una pagina sempre affascinante della nostra cultura.

Monstruum Scylaeum (Scilla)

Delle correnti e dei venti dello Stretto di Messina, guardando dall’alto la superficie del mare, se ne può percepire la presenza. È facile osservare questi grandi movimenti naturali, le acque s’increspano, spumano di bianco in quei punti; a prima vista l’occhio s’inganna, è come se sotto la superficie numerosi animali marini ritmicamente prendano respiro.

Schematizzazione delle correnti nello Stretto di Messina.

C’è un piccolo borgo che sorge proprio lì, nel tratto di mare di fronte alla Sicilia. È Scilla. Già il nome riecheggia antiche saghe, tra mito e storia. Le sue origini appaiono antichissime come le leggende di quei luoghi. Deriverebbe dal greco antico (Skylla o Skyllaion) con il probabile significato di “scoglio” o “colei che dilania” se immaginato come appellativo della dea del Mare distruttrice (R. Graves).
Gli scogli non mancano in questa zona, a ben notare, sono proprio l’elemento caratteristico della costa rocciosa calabrese. A dominare il paese c’è il Castello Ruffo, sorto sulla roccia più alta e aggettante sulle acque. Si tratta di un rifugio naturale, inaccessibile, baluardo di difesa dagli attacchi provenienti dal mare. Proprio qui, probabilmente, sorgevano i primi insediamenti di pescatori, di cui non se ne hanno traccia. Anche le tracce dell’antico porto oggi sono comparse, a causa delle violente tempeste e delle fortissime correnti marine. Alcuni resti, a quanto pare, furono rinvenuti ancora nel XVIII secolo a seguito delle ricerche di uno studioso locale. Però si percepisce visivamente come il sito fosse un approdo piuttosto sicuro, collocato a margine dello Stretto di Messina.

Ipotesi ricostruttiva dell’insediamento più antico di Scilla.

Secondo Palifato, Polibio e Strabone il primo nucleo abitato di Scilla risalirebbe ai tempi della Guerra di Troia. In questa remota epoca, si è soliti riconoscere nella penisola italica ondate di migrazioni di popolazioni provenienti dal mare. Tali popolazioni, o ecisti micenei, potrebbero aver fondato qualche villaggio lungo i terrazzamenti più bassi del crinale aspromontano sud-occidentale, degradante verso lo Stretto. Trattandosi di popoli di pescatori, presumibilmente elessero come area d’insediamento il sito adiacente la rupe centrale di Scilla, dove la presenza dei numerosissimi scogli agevolava la pratica della pesca, consentendo al tempo stesso la costruzione di rudimentali capanne.
Tale ipotesi è in parte avvalorata dallo stesso Omero: nel descrivere Crataia come madre di Scilla, lascia intendere l’esistenza di uno stretto legame tra questa e la nascita del mito del Monstruum Scylaeum, da intendersi sorto ancora alla prima frequentazione umana del tratto di mare antistante l’odierna cittadina. Dal momento che Crataia è da più parti identificata con il vicino torrente Favazzina, conosciuto anche come fiume dei pesci, se ne potrebbe dedurre che gruppi di popoli dediti alla pesca, giunti via mare lungo la bassa costa tirrenica, inizialmente siano approdati alla foce di questo fiume, dove era agevole praticare l’attività, successivamente si siano spostati più a sud, trasferendo la propria residenza presso la costa scillese, più ricca di pesci. Nella similitudine su Scilla (Od. XII, 251-255), un altro punto è alquanto calzante con il paesaggio e il carattere del luogo. Omero paragona Scilla al pescatore che dallo sperone roccioso pesca con la lunga canna e poi sbatte i pesci contro le rocce mentre li tira su.
Sta di fatto che la prima fortificazione attestata sembra appartene all’età magno-greca del V a.C., e in seguito la fortezza fu potenziata e conosciuta dai romani come Oppidum Scyllaeum, come ci tramanda anche Plinio.

Ipotesi ricostruttiva di Scilla come approdo, vista a volo d’uccello.

Le correnti ricche di pesci, raccolgono, oggi come allora, i detriti del mare. Vomitano sulla piccola baia, per la maggior parte plastica, la spazzatura moderna per eccellenza. Anticamente qui doveva arrivare di tutto dal mare: sartiame, resti d’imbarcazioni, forse anche corpi di marinai morti in mare. Questi ultimi, gonfi, decomposti, mangiati dai pesci, probabilmente alimentarono il mito del Monstruum Scylaeum, così come quello di Cariddi.
Infatti, ad un tiro d’arco come ci racconta sempre Omero (Od. XII, 101-102), di fronte a Scilla si scorge bene Capo Peloro, dove si collocava presumibilmente Cariddi. Il luogo era conosciuto per il “grande fico ricco di foglie”. Oggi la descrizione omerica sembra essere stata rimpiazzata dal moderno sovradimensionato faro. Eppure non dobbiamo dimenticare, nelle recenti intenzioni esiste la costruzione di un altro gigante tecnologico: il ponte sullo Stretto. Sono forse questi i mostri del futuro? Sinceramente, meglio quelli del mito!

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